Cosa c’è di più banale di un post a capodanno? Il capodanno forse, che è di per sé banale, ed è proprio la sua banalità a legittimare la nostra tendenza a tirare le somme, a ricordare i giorni vissuti, i giorni passati, a vagheggiare su quelli che verranno, e a pensare “cosa ho fatto quest’anno?”.
Quest’anno iniziava mentre speravo che quello passato non fosse finito, ed avevo tra le mani una moleskine rossa, che continuavo a riempire fino a farla quasi esplodere, ed una vecchia chiave incisa. Le ho regalate entrambe.
Ho passeggiato per le vie di Roma nelle domeniche di noia e di sole e mi sono seduta sulle panchine del Pincio.
Ho fatto le prove di grammatica e ho sbagliato il si passivante.
Ho partecipato al laboratorio teatrale e mi sono vestita da suora laica e sono stata innaffiata come una pianta secca.
Ho mosso le labbra davanti la fotocamera del telefono per inviare i video di snapchat, per essere Dory e parlare balenese, per cantare banana ed essere un minion, per dire a qualcuno che vale la pena sciogliersi ed essere un pupazzo di neve.
Ho indossato i tacchi per la prima volta (a diciassette anni, sì) e ho provato anch’io l’estasiante felicità nel toglierli a fine serata, appena entrata in macchina.
Ho ritagliato un cuore su un cartone rosa e mi sono vestita di giallo per sentirmi libera come un omino di Keith Haring, finendo per sembrare un imbarazzante canarino che fa la pubblicità fuori dal negozio da cui ancora nessuno mi comprava.
Ho disegnato un Baymax bellissimo con un cuore rosso, con una rosa in mano e con un Olaf sulle spalle promettendo di regalarlo, finendo per averlo ancora adesso, a fine anno.
Ho imparato a scrivere l’alfabeto greco perché mi sono innamorata dei versi di Saffo, per scriverli sotto il mio astuccio delle penne, finendo per trovare la mia parola tatuata infine sul mio polso.
Ho iniziato a dire ciò che prima solo pensavo.
Ho sperato come mai avevo fatto.
Ho detto troppi sì e troppi no senza alternarli.
Ho fatto lezione di inglese con il proprietario di un gatto che era stato accudito da Hozier.
Ho rincorso una cartolina in giro per la capitale irlandese senza mai trovarla.
Ho cercato tutti gli oggetti su cui sono stati stampati dei minions per far felice qualcuno.
Ho litigato per motivi così stupidi che lo rifarei di nuovo, perché litigare per motivi stupidi è sempre meglio che litigare per motivi seri.
Ho comprato una giacca militare da Zara e l’ho indossata una domenica al mare ad aprile, mentre mamma mi scattava una delle foto che più amo.
Ho letto Il Piccolo Principe dieci volte nel corso di due mesi, lettura culminata con il desiderio irrefrenabile di avere una rosa di cui prendermi cura. Ho optato per una disegnata da custodire.
Ho giocato con i Phiconi ad Assisi una settimana prima del Calendimaggio e fatto selfie con mia zia nel verde dell’Umbria primaverile.
Ho sorriso con Nole in più di una foto nei giorni più belli dell’anno, nella città più bella del mondo.
Ho visto l’Expo di Milano, ma sono riuscita solo a sedermi a gambe incrociate e a fare una foto davanti al padiglione giapponese con Federica.
Ho comprato un bellissimo orologio con il cinturino in pelle nera, mi ci sono affezionata e l’ho perso a Pisa durante il corso di mediazione linguistica.
Ho capito che non potrei mai fare mediazione linguistica.
Ho capito di voler studiare lettere, ma ho cercato alternative.
Ho comprato un manuale gigantesco per esercitarmi a fare i test di ammissione a medicina, ma ho capito che stavo solo illudendo altre persone.
Ho deciso di studiare lettere nella città eterna.
Ho scritto una lettera a Dante a nome di Francesca da Rimini, ma in realtà l’avevo già scritta.
Ho sfruttato la casetta per trascorrere serate in compagnia delle persone a cui voglio più bene, di film di Harry Potter e di cartoni di pizza e coppette gelato.
Ho cantato Hasta la raíz al buio di un sottopassaggio, sperando che nessuno mi sentisse.
Ho comprato enormi quantità di libri alla Feltrinelli finendo per riempire ogni spazio disponibile sul mio soppalco.
Ho capito che il mio soppalco è il mio luogo dell’anima.
Ho letto le lettere di Pavese e quelle di Abelardo ed Eloisa, poi ne ho scritte un po’ anch’io e le ho chiuse in una scatola.
Ho visto undici serie di Grey’s Anatomy, finendo per vedere camici ovunque, al supermercato e dietro i banchi di scuola.
Ho indossato i pantaloni strappati che tutti indossavano e che avevo comprato tempo fa in un negozio di Boston.
Ho scritto un racconto per capire tante cose. Ho capito di essere giunta a conclusioni che si sono poi rivelate impraticabili.
Sono tornata dal parrucchiere dopo due anni e mezzo.
Ho festeggiato il mio diciottesimo compleanno e non ho preso la patente.
Sono andata in America, ho fatto paracadutismo ascensionale sull’oceano, sono tornata in Italia.
Ho scattato foto istantanee che potrebbero essere interpretate solo dalla mente di Tim Burton per riuscire ad esprimere qualcosa od imprimere un’immagine.
Ho preso un altro cane che ho chiamato Arizona, come il chirurgo pediatrico e fetale di Grey’s Anatomy, ed ora è il mio nuovo amore.
Ho fatto la foto di Hazel e Gus con la mia migliore amica nel giardino di casa.
Ho scritto il Dialogo della Guerra e della Religione tra le note del telefono e non l’ho più letto.
Ho cantato tra il pubblico al concerto di Mika in un settembre caldissimo e pieno di sole.
Ho conosciuto Virginia Woolf, sono entrata nella sua stanza tutta per sé senza mai uscirne davvero, e me ne sono perdutamente innamorata.
Ho cucinato ricette vegetariane e pancake vegani.
Ho vinto i biglietti per vedere XFactor live e ho scoperto che la mia altezza mi ha precluso il selfie con Skin da sotto il palco, mentre scomparivo tra la folla più alta di me.
Ho mangiato biscotti alla cannabis in cui l’erba era solo nel nome e nell’odore nell’aria di Amsterdam.
Sono andata al museo di Van Gogh – e non impazzisco per i suoi quadri quanto per la sua follia ed il suo genio – e ho trovato i dipinti di Munch, che adoro.
Ho fatto da elfo di Babbo Natale ed impacchettato ogni regalo, anche il mio, arrivando alla vigilia senza sorprese.
Ho pianto per la gioia scartando una busta di intimissimi e trovando un libro di Orazio risalente al 1736, con le pagine che implorano di non essere toccate perché sono più importanti di me e di tutti noi messi insieme.
Ho letto il mio regalo firmato Pennac / Miró, regalo da parte di mia zia del Natale del 1997, il mio primo Natale.
Tirando le somme, oggi, ho capito che posso stilare una lista di canzoni che ascolto piangendo, che posso dire che neanche quest’anno sono riuscita a toccare una bottiglia di vino o di birra alimentando la mia metifobia ormai quasi dichiarata e che io, la sera di capodanno, amo passarla in famiglia, come se fosse un giorno qualsiasi, perché realmente è un giorno qualsiasi, solo che si mangia di più, mamma fa un dolce che fa una volta l’anno e che io puntualmente non mangio, si conta al contrario per salutare un numero e accendere le stelline scintillanti di cui io ho paura.
Ah, dimenticavo…
Ho scritto sei lettere sul foglietto bianco a penna e qualcun altro le ha scritte sul mio polso. E ho creato un blog.
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