C’è tempo


Dall’ultima volta che ho condiviso qualcosa è successo di tutto. Anche quest’anno l’estate è iniziata e subito dopo è finita, con la stessa rapidità di un episodio su Netflix quando la connessione è veloce, mentre speravo, per la prima volta, che si bloccasse tutto. I corsi all’università sono cominciati; Trump è diventato presidente; ho preso la patente. E mezzo duemilasedici è passato. E, di certezze, ne sono rimaste davvero poche, ma una di queste è la seguente: non sono capace di mantenere un blog. Ci ho provato, ma troppa costanza, troppa buona volontà, troppo tempo ci vogliono. E il tempo si trova, ma tutto il resto? Me lo porta la befana insieme ad un esame nella calza? Non credo. Ho perso quasi tutte le speranze. Quasi perché poi ci pensa il capodanno ad annientare quelle rimaste. A proposito: tu che fai a capodanno? Rispondo: gli auguri. Non bastano? Secondo me sì. A volte devi anche farli doppi, gli auguri. 
Anche quest’anno ho avuto voglia di fare cose diverse. Sai quando ti prende quella sensazione strana per cui ti senti a metà tra Rita Pavone e una canzone di Ivano Fossati? È come un bivio, ma poi mi ripeto che uno il coraggio mica se lo può dare, e quello che valeva per don Abbondio vale anche per me. Quindi c’è tempo, c’è tempo più o meno per tutto: anche per la Rita Pavone che è in me. Perché, come diceva il sommo poeta De André, ti viene la voglia di uscire e provare, e ti tieni la voglia e rimani a pensare. A pensare. Sì, ma poi ti stanca pure il troppo pensare. 

In questo duemilasedici è accaduto anche che ho provato a combattere la metifobia (sì, sempre quella: la paura dell’alcol). Purtroppo l’ho fatto nella maniera sbagliata, e l’unico contatto con del vino è avvenuto a Madrid, quando un calice si è abbattuto sui miei pantaloni neri – neri, così la macchia non si vede e rimuoverla è utopia. Ero indecisa se buttarli via oppure custodirli come memento mori, ma poi ho optato per una terza scelta: passare una notte nel bagno d’albergo a lavare pantaloni in un bidè solo per impacchettarli e incastrarli nella valigia, pronti per altri undici lavaggi. Ed ora penso che, se ce l’hanno fatta loro, posso farcela anche io. Chissà, forse nel duemiladiciassette. Perché in fondo – che poi questo fondo qualcuno l’ha mai trovato? – lo ha detto De Gregori che siamo noi, siamo noi ad avere tutto da vincere e tutto da perdere. E c’è chi direbbe tutto da bere. E, aggiungo io, tutto da vivere, no? 

Quest’anno che -vi avverto nel caso nessuno ve l’avesse ancora detto- sta per finire mi ha regalato anche un’altra consapevolezza: ho capito di non capire più niente. Ma proprio niente, eh! Non che prima capissi.

E, forse, ho deciso che sei lettere stanno sul polso, non sul blog. 

Pubblicità

Alla ricerca della finita maturità 


La maturità è finita. E detto così sembra un’imperdibile offerta che trovi sugli scaffali di un negozio e che al momento è terminata. Oppure, se si parla di concetti astratti, detto così sembra abbia avuto la stessa sorte del senno di Orlando. Solo che questa volta non c’è nessun Astolfo a salvare tutti. 

E dunque, dicevo, la maturità è finita. O almeno la mia. E cos’è la maturità? Non si è ancora capito. C’è chi dice un passo importante, un trampolino di lancio verso la vita reale, chi invece la manifestazione evidente di ogni ingiustizia e iniquità di un sistema scolastico inadatto. Non si è ancora capito. E forse mai si capirà. Forse serve solo ad essere raccontata. 

Se così, ve la racconto. 

La maturità ti attende immobile fin dall’inizio del liceo e ti aspetta alla fine di una lunga scalinata (che alcuni percorrono in salita altri in discesa: scelta facoltativa) al cui termine ti getta lei stessa altri gradini davanti (questa volta in salita: scelta obbligata) che devi inevitabilmente superare. La maturità è lì. Arrivi, credi di vederla perché te l’hanno raccontata, e poi finisce. 

Ebbene, per raggiungere una finita maturità, sono richiesti dei prerequisiti imprescindibili. Nell’ordine, per le prove scritte: essere un eccelso copiatore, avere una resistenza fisica pari a quella di un atleta islandese che si prepara alle olimpiadi in Egitto, essere abituato a non dormire di notte e, di conseguenza, amare senza limiti qualsiasi tipo di energizzante – in ordine proporzionale al bisogno di energia: carboidrati, litri di caffeina, overdose di nutella (in casi estremi: overdose di nutella su quintali di carboidrati) -, non essere facile preda dell’ansia, avere rigorosa puntualità affinché tu possa entrare in aula per primo e prendere l’ultimo banco dell’ultima fila. 

Per le prove orali: tentare di studiare e stringere amicizia con la dea bendata (solo lei potrà aiutarti, se le stai simpatico). 

Coloro che dovrebbero avere questi prerequisiti (che a me mancano) si chiamano maturandi. Maturandi perché secondo qualcuno – lo Stato, la scuola, il sistema – si matura in una quindicina di giorni, il tempo di tre prove scritte ed una orale.

Ci sono tre categorie differenti di maturandi. Della prima fanno parte coloro che passano intere giornate a specializzarsi in tecniche di restauro di vocabolari o di copiatura di stampo amanuense: questa categoria è ben popolosa ed ogni anno sfoggia nuove tecniche in nome di una genialità compiaciuta. La seconda è quella dei “domani inizio a studiare” pronunciati fino al giorno prima dell’esame, la cui preparazione prevede mare, sole, passeggiate e acquisizione del sapere per osmosi. La terza è la categoria di studenti che hanno studiato per cinque (non troppo lunghi) anni e che si ritrovano improvvisamente nel vuoto assoluto, come se tutto fosse caduto nel dimenticatoio (dell’anima? della scuola? dell’ansia?) e per questo motivo la loro preparazione consiste anche (soprattutto) nella creazione di frasi ad effetto per giustificare una loro inattesa caduta all’esame.

Della prima e della seconda fanno parte studenti in corsa per il 60, perché “100 non fa cultura, 60 non fa paura”, senza sapere che spesso poi arrivano a dover cambiare la frase (slogan del buon maturando) per non ritenersi offesi. Della terza, invece, studenti che mirano ad ottenere quei dieci punti tra 90 e 100, consapevoli poi di doversi accontentare di altro e fingere un sorriso diplomatico accompagnato frasi preparate per l’occasione. 

In ogni caso, per ogni categoria, la maturità finisce. E finisce con un voto che rimane a vita. E a cosa serve quel voto? Ancora non si è capito. Alcuni dicono per l’università, altri per soddisfazione personale. (C’è anche chi ha creato un breve ed edificante libretto illustrativo in cui è spiegato come sfruttare al meglio quel voto, ma mi limito a dire questo, senza scendere nel dettaglio). E non si capisce essenzialmente perché dopo una sfilata infinita di voti – i cinque anni di liceo con una verifica al minuto – debbano darti un altro voto, quello finale, l’unico che resta davvero, valutando le tue ansie nell’arco di qualche giorno. 

Forse anche il voto, come la maturità, serve solo ad essere raccontato da alcuni, dai molti dimenticato senza successo.

La maturità, dunque, oltre ad essere materiale prediletto e proposto dal nostro inconscio durante la notte, a cosa serve? 

Ad eliminare le domande che avevi, senza darti una risposta, e a lasciare che un’altra miriade di folli interrogativi si materializzi dinanzi a te. A lasciarti fuggire da tutti, da casa, dai tuoi luoghi, dalle persone con cui hai vissuto per cinque (non troppo lunghi) anni senza dirti come si fa, come farai. Serve a questo, che sostanzialmente è il nulla. 

Ma serve anche a ricordarti che hai una vita davanti, diversi luoghi e persone da incontrare, veri esami da affrontare. Ed è bella la maturità. Bella perché non hai neppure vent’anni. 

Sorry for Brussels

  
Una maglietta grigia, sporca e di qualche taglia più grande, o forse solo allargata dal tempo, una fasciatura al gomito, due occhi pieni di ciò che hanno visto finora, e un cartello bianco tra le mani con su scritto “Sorry for Brussels”. Così lui, un bambino come tanti altri, nel campo profughi di Idomeni, in Grecia, dinanzi agli attentati di questa mattina in Belgio. Ed ora la sua foto fa il giro del web.

Non voglio parlare di quanto accaduto: c’è ben poco da dire. Questo 22 marzo somiglia tanto a quel 13 novembre, che a sua volta – purtroppo – somigliava a tanti altri giorni che non si dimenticano. 

Ma rimango senza parole osservando le reazioni delle persone. 

C’è chi aspetta questi disastri per inneggiare alla chiusura delle frontiere e chi predica la lotta contro gli Islamici, ed entrambe le parti non hanno ancora capito cosa sta accadendo. 

C’è chi parla ancora di migranti, di migranti islamici, e quindi di migranti islamici terroristi, seguendo un sillogismo ormai così diffuso che persino Aristotele, se vivesse in questo 2016, avrebbe difficoltà a comprenderlo, meno però ad accettarlo. 

Poi c’è chi non fa in tempo a riflettere e a preoccuparsi che già è su Facebook o su Twitter a condividere parole di Oriana Fallaci sul terrorismo. Ed io mi sorprendo nel vedere come venga riesumata ultimamente in tanti e assai diversi contesti e ritenuta congeniale ad ognuno di questi. 

C’è chi, inoltre, tenta in tutti i modi di giustificare questi attentati di follia (perversa e disumana) parlando di guerre in Afghanistan, di ciò che l’Occidente ha provocato finora, ignorando la netta differenza che intercorre tra giustificazione ed argomentazione, dato di fatto, constatazione – chiamatela come volete, ma non giustificazione, perché a quel punto non reggerebbe. 

E poi c’è quel bambino, che vive in un mondo in cui sentirsi in colpa di appartenere ad un luogo, ad una cultura è un sentimento ordinario e quasi legittimo che accomuna molte persone. 

Ma che mondo è quello di oggi? Che mondo è un mondo in cui un bambino deve sentirsi in colpa per ciò che succede attorno a lui solo perché rifugiato, migrante, magari musulmano? 

Che mondo è un mondo in cui ci stiamo abituando a giustificare il terrore non meno del terrorismo? 

Un mondo in cui non sapremo forse mai cosa sta davvero accadendo.

Mentre lui, il bambino dalla maglia grigia e gli occhioni parlanti, è costretto ad emigrare da una forma assoluta di terrore per immigrare in un’altra. Perché l’Occidente è tollerante, e tollera tutto, anche il terrore, anche l’orrore.

  

Soltanto tre certezze

  

  • Vodafone oggi regala un giorno di navigazione gratuita a tutti i suoi clienti. Approfitta anche tu dell’offerta!
  • E perché mai? Mi pare uno strano modo di far beneficenza!
  • Per la festa della donna! …Ah, auguri a te che sei donna!

Passi la festa della mamma, quella del papà, quella della Nutella e dei pancakes, quella del gatto dagli occhi verdi e del koala arrampicatore di alberi. 
Passino i pensieri delle persone che su Facebook condividono la foto della loro mamma, della loro donna, della loro nonna dicendo di amarla: non sarò certo io a fermarle. Ma non i post in cui spacciano questo giorno per una festa. 

Festa di cosa? Festa di chi? 

Cosa festeggiamo e, soprattutto, chi festeggiamo? 

La risposta è la donna. Le donne. 

Ma, chiaramente, non proprio tutte. 

Togli quelle immigrate perché fuggite, quelle lesbiche perché contro natura, quelle con i capelli tinti di fucsia e con la ricrescita glitterata perché folli, quelle che hanno più plastica in corpo che in un negozio di giocattoli perché loro non hanno accettato l’irreversibile corso della vita. 

Togli le donne che scelgono di procreare e donare poi il figlio ad altre persone, togli poi le donne nate così e disgraziatamente affidate a coppie omosessuali. 

Togli le donne che non sono nate donne ma che lo sono diventate, e per farlo hanno sofferto, combattuto e ancora sofferto. 

Togli quelle che vanno via di casa e sposano un lavoro invece di pensare a metter su famiglia, perché così si comporta un uomo, e non si può essere uomo essendo donna. 

Togli anche Maria de Filippi perché 1) ha sposato una tartaruga e 2) è più uomo di me.

A questo punto io ho perso il conto, ma il mondo ancora no. Perché poi arriva, ogni anno, l’8 marzo ed io entro su Facebook e la mia bacheca pullula di gente che invia auguri come fosse Natale, citando frasi di Shakespeare senza neppure sospettare della misoginia presente nelle parole scelte e urlando a gran voce più diritti per tutti, “anche per le donne”. Allora “festeggiamole perché lo meritano”. Meritano di essere festeggiate. 

Peccato che poi vengano pagate meno degli uomini pur facendo – ormai – lo stesso identico lavoro, da cui vengono comodamente licenziate perché intraprendono una gravidanza. Perché sì, se una donna decide di non avere figli è un’incosciente, mentre se decide di averne deve accettare il rischio di essere licenziata per la sua scelta, scelta che si legge scelta-imposizione-natura-miracolo-disgrazia a seconda dei casi e dei gusti. E nel 2016 ancora rischia di morire di parto. 

Ma tanto ci sono le quote rosa, per cui abbiamo diritto ad un parcheggio anch’esso rosa e ad alcune miserabili percentuali che ci consentono di essere presenti. Perché sì, abbiamo bisogno di percentuali da imporre agli uomini affinché questi si convincano di avere bisogno di noi non solo in cucina. 

Così, nel 2016, ancora dobbiamo temere di essere in pericolo se indossiamo un paio di calzoncini invece di un burqa semplicemente perché gli uomini si sono sempre sentiti in diritto di utilizzarci come oggetti. E noi, donne, sempre in dovere di soddisfare ogni loro esigenza. (Che poi…che esigenza è? Chiamarlo disturbo-perverso-folle-ingiustificato era troppo lungo?)
Ma tanto poi ogni anno, l’8 marzo – comunemente definita festa, ma in realtà Giornata internazionale della donna – si ricordano improvvisamente tutti di festeggiarci, regalando mimose o connessione dati gratuita come fa Vodafone con la sua gentile offerta.
Ed io, fieramente donna e non per questo femminista, ho solo tre certezze in questo giorno. 

Che tanto le mimose stanno meglio sugli alberi.

Che tanto io sono cliente Wind.

Che tanto, secondo i miei calcoli, non sono neppure tra le donne che voi festeggiate.

1980

 Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.

Quel posto

 

Vista dal Tempio di Giove, Terracina, 5 settembre 2014

 
C’è un posto in cui vorrei andare spesso. 

Hai presente quando improvvisamente, da un momento all’altro, smetti di fare ciò che stai facendo, presa da una voglia indicibile di fare altro, e ti ritrovi a pensare di voler essere in un altro posto, in quel posto? 

E quel posto probabilmente non ha neppure un significato particolare, ma è lì, fisso, e si manifesta in tutta la sua imponenza nei tuoi pomeriggi.

Ti disturba senza chiedere il permesso di farlo, ti solletica la memoria e invade i tuoi occhi, così, improvvisamente, senza lasciarti il tempo di bloccarlo.

E puoi sentirne l’odore, puoi respirarlo, puoi ascoltarne il silenzio.

Ti capita? 

A me capita spesso, e quando mi capita mi sfiora anche l’idea di prendere la patente. Perché prendere la patente significherebbe poter guidare fin sopra quel monte e restare lì per ore, per tutto il tempo che voglio, senza chiedere nulla a nessuno.

Ma è febbraio, ho la maturità tra qualche mese e, la patente, non l’ho ancora presa.

Così mi accontento di ciò che la mia mente può offrirmi. E vedo e sento tutto.

Percorro le curve, una dopo l’altra, fino a salire su, al Tempio di Giove.

Getto uno sguardo verso il mare, e lo vedo immenso sotto di me; poi passo tra le colonne, sotto le volte, e mi siedo sull’ultimo scalino a sinistra, con l’erba incolta che sfiora le caviglie.

Così, fin quando ne ho voglia.

E non so neppure perché proprio quel posto, ed è buffo pensare che le volte in cui ci sono stata realmente non sono neanche lontanamente paragonabili al numero di volte in cui sono stata fisicamente qui e mentalmente lì.

Capisci? È buffo. 

25 gennaio 1882, VW

  
Nel giorno del suo quarantottesimo compleanno, Virginia Woolf passeggiò con Leonard sulle colline di Rodmell. Quelle colline le sembrarono ali piegate di uccelli grigi; poi vide una volpe, molto lunga, con la coda tesa; poi un’altra ancora, che aveva gannito perché il sole picchiava forte, finché non saltò agilmente una siepe, inoltrandosi nella ginestra spinosa. Descrisse così il giorno del suo compleanno, sul suo diario, nel lontano 1930, definendo ciò che aveva visto uno spettacolo molto raro. L’anno dopo, di nuovo tornò a passeggiare a Rodmell con Leonard. Quell’anno vide, sotto un sole caldo di gennaio, una gazza e sentì i primi uccelli di primavera: fieramente egocentrici, come gli uomini. 

Oggi avrebbe compiuto centotrentaquattro anni. In questo lunedì di gennaio, probabilmente avrebbe passeggiato ancora, su quelle stesse colline immobili da decenni, e si sarebbe inoltrata in qualche pungente arbusto per toccare con mano il reale che troppo spesso le sfuggiva – o da cui troppo spesso lei stessa fuggiva – e sedere a terra, sull’erba umida e fredda, a lasciar scorrere quell’ammucchiarsi inarrestabile di riflessioni che la vita porta con sé, mentre scorre veloce, accumulandosi. Sarebbe stato oggi uno dei giorni che si alternavano ad altri giorni incolori, insapori, insipidi, come li descriveva lei stessa, giorni senza colore in cui tutto era appiattito, ma stranamente di un’estrema bellezza. 

O forse avrebbe preferito respirare l’aria di Londra, città che tanto amava e che spesso ripudiava, come se le togliesse il respiro, come se la annullasse, rendendola inafferrabile e al contempo irritante, come una raffica improvvisa di vento freddo sul nostro volto, e costringendola a fuggire di nuovo dalla sua vita. E, perché non si smarrisse ancora, in uno di quei momenti in cui la follia le accarezzava il volto e la guidava a sentire i passeri cantare in greco, Virginia annotava tutto nei suoi cari diari, tanto elastici da contenere qualunque cosa le venisse in mente, solenne, lieve o bellissima che fosse. 

Ed io leggo ogni giorno le sue pagine, leggo le sue parole che riecheggiano come un’eccitante ma familiare sorpresa, di cui sento di non essere mai sazia. C’è come un filo invisibile che mi conduce a lei e che per ora sembra indistruttibile, cosicché quando la leggo mi pare di essere tornata in un luogo in cui non sono mai stata, ma un luogo che inconsciamente conosco, un luogo che mi dona delle risposte ancor prima che io rivolga delle domande. 

E mi accorgo, sempre più, di essere saldamente incollata alle sue parole: appiccicata proprio come una mosca alla carta gommata, senza perdere il contatto.

  

Carol, Therese

 

Rooney Mara (Therese) e Cate Blanchett (Carol)

 
Oggi voglio parlare di Carol. Il film, Carol. Perché secondo me è meraviglioso, e perché sono rimasta sveglia fino a tardi per vederlo una seconda volta, in lingua originale, finendo sul sito della Feltrinelli ad ordinare il libro da cui il film è stato tratto.

Carol è la storia di un amore, puro, elegante, vissuto nella New York degli anni Cinquanta. 

Carol Aird è una donna affascinante; Therese Belivet una giovane ragazza insicura, silenziosa, che ama i libri, la fotografia, la musica. 

Carol è sposata con Harge, ma sta per divorziare da lui; Therese condivide la sua quotidianità con Richard, il quale desidera partire per l’Europa, per la Francia, assieme a lei. Lei, però, non è sicura di sapere cosa vuole, di saper scegliere: non sa neppure cosa ordinare per pranzo.

La storia di Carol e Therese è la storia di un amore che semplicemente accade e chiede di essere vissuto, un amore che nasce da un sguardo tra le due. Un amore semplice e pieno di delicata e dolce passione dipinta con colori pastello e fotografata dai vetri delle finestre, di uno specchio, di un finestrino.

È un amore pieno di silenzi, per questo mi piace. Così tanti silenzi in cui le due donne si immergono da dar vita a domande che possano riportarle in superficie, come quando Carol si rivolge a Therese modulando un timido ed amabile “sei ancora con me?”. È il silenzio di chi ha mille domande ma non sa decidere a chi rivolgerle, se a sé stessa o a Carol, perché nell’esatto istante in cui le pensa, sfiora le risposte ad ogni suo interrogativo. E traducendo i suoi silenzi in parole, le risposte avrebbero voce, e tutto suonerebbe scontato. A volte solo pensando di conoscere qualcosa si prova una gioia immensa, un senso di appagamento assoluto che, tradotto in parole, la voce dissipa in aria.

È il silenzio di chi inizia a conoscersi e a chiedersi se sia davvero reale ciò che prova, se sia possibile che da un momento all’altro ci si innamori di una donna, essendo una donna. 

È il silenzio di Therese seduta in macchina accanto a Carol, seduta davanti al pianoforte, davanti ad uno specchio di una camera d’albergo. È il silenzio che Carol comprende, invadendolo delicatamente con qualche parola, con sguardi intensi, con carezze animate da un impulso di premurosa passione. 

È il silenzio che fa sorridere, dolcemente.

Al silenzio di Therese si contrappone l’affermazione di una donna carismatica, apparentemente sicura di sé, che arriva a rinunciare a sua figlia Rindy per vivere secondo la sua natura, negli anni Cinquanta non facilmente accettata. 

  

Cate Blanchett, Rooney Mara

 
Patricia Highsmith pubblicava questa storia nel 1952 con il nome de Il prezzo del sale, o Carol.

Ed io oggi voglio parlare di Carol perché è la solita pellicola che nei cinema va a finire nelle ultime sale, in quelle più piccole che difficilmente si affollano, e che dopo pochi giorni viene rimpiazzata da un altro film, come accade qui, nella mia città.

Eppure la tenera ed elegante delicatezza di questo film mi ha completamente catturata, dal primo minuto fino all’ultimo, e catapultata in un’atmosfera sospesa di cui Carter Burwell ha musicato una colonna sonora squisitamente poetica.

Therese continua ad avvicinarsi. Carol la guarda con un sorriso dirompente nei suoi occhi. Therese è ormai vicina.

Duemilaquindici

   
 
Cosa c’è di più banale di un post a capodanno? Il capodanno forse, che è di per sé banale, ed è proprio la sua banalità a legittimare la nostra tendenza a tirare le somme, a ricordare i giorni vissuti, i giorni passati, a vagheggiare su quelli che verranno, e a pensare “cosa ho fatto quest’anno?”. 

Quest’anno iniziava mentre speravo che quello passato non fosse finito, ed avevo tra le mani una moleskine rossa, che continuavo a riempire fino a farla quasi esplodere, ed una vecchia chiave incisa. Le ho regalate entrambe.

Ho passeggiato per le vie di Roma nelle domeniche di noia e di sole e mi sono seduta sulle panchine del Pincio. 

Ho fatto le prove di grammatica e ho sbagliato il si passivante. 

Ho partecipato al laboratorio teatrale e mi sono vestita da suora laica e sono stata innaffiata come una pianta secca.

Ho mosso le labbra davanti la fotocamera del telefono per inviare i video di snapchat, per essere Dory e parlare balenese, per cantare banana ed essere un minion, per dire a qualcuno che vale la pena sciogliersi ed essere un pupazzo di neve.

Ho indossato i tacchi per la prima volta (a diciassette anni, sì) e ho provato anch’io l’estasiante felicità nel toglierli a fine serata, appena entrata in macchina. 

Ho ritagliato un cuore su un cartone rosa e mi sono vestita di giallo per sentirmi libera come un omino di Keith Haring, finendo per sembrare un imbarazzante canarino che fa la pubblicità fuori dal negozio da cui ancora nessuno mi comprava. 

Ho disegnato un Baymax bellissimo con un cuore rosso, con una rosa in mano e con un Olaf sulle spalle promettendo di regalarlo, finendo per averlo ancora adesso, a fine anno.

Ho imparato a scrivere l’alfabeto greco perché mi sono innamorata dei versi di Saffo, per scriverli sotto il mio astuccio delle penne, finendo per trovare la mia parola tatuata infine sul mio polso. 

Ho iniziato a dire ciò che prima solo pensavo. 

Ho sperato come mai avevo fatto.

Ho detto troppi sì e troppi no senza alternarli.

Ho fatto lezione di inglese con il proprietario di un gatto che era stato accudito da Hozier.

Ho rincorso una cartolina in giro per la capitale irlandese senza mai trovarla.

Ho cercato tutti gli oggetti su cui sono stati stampati dei minions per far felice qualcuno.

Ho litigato per motivi così stupidi che lo rifarei di nuovo, perché litigare per motivi stupidi è sempre meglio che litigare per motivi seri. 

Ho comprato una giacca militare da Zara e l’ho indossata una domenica al mare ad aprile, mentre mamma mi scattava una delle foto che più amo.

Ho letto Il Piccolo Principe dieci volte nel corso di due mesi, lettura culminata con il desiderio irrefrenabile di avere una rosa di cui prendermi cura. Ho optato per una disegnata da custodire.

Ho giocato con i Phiconi ad Assisi una settimana prima del Calendimaggio e fatto selfie con mia zia nel verde dell’Umbria primaverile.

Ho sorriso con Nole in più di una foto nei giorni più belli dell’anno, nella città più bella del mondo.

Ho visto l’Expo di Milano, ma sono riuscita solo a sedermi a gambe incrociate e a fare una foto davanti al padiglione giapponese con Federica.

Ho comprato un bellissimo orologio con il cinturino in pelle nera, mi ci sono affezionata e l’ho perso a Pisa durante il corso di mediazione linguistica.

Ho capito che non potrei mai fare mediazione linguistica.

Ho capito di voler studiare lettere, ma ho cercato alternative.

Ho comprato un manuale gigantesco per esercitarmi a fare i test di ammissione a medicina, ma ho capito che stavo solo illudendo altre persone.

Ho deciso di studiare lettere nella città eterna.

Ho scritto una lettera a Dante a nome di Francesca da Rimini, ma in realtà l’avevo già scritta.

Ho sfruttato la casetta per trascorrere serate in compagnia delle persone a cui voglio più bene, di film di Harry Potter e di cartoni di pizza e coppette gelato.

Ho cantato Hasta la raíz al buio di un sottopassaggio, sperando che nessuno mi sentisse.

Ho comprato enormi quantità di libri alla Feltrinelli finendo per riempire ogni spazio disponibile sul mio soppalco.

Ho capito che il mio soppalco è il mio luogo dell’anima.

Ho letto le lettere di Pavese e quelle di Abelardo ed Eloisa, poi ne ho scritte un po’ anch’io e le ho chiuse in una scatola.

Ho visto undici serie di Grey’s Anatomy, finendo per vedere camici ovunque, al supermercato e dietro i banchi di scuola.

Ho indossato i pantaloni strappati che tutti indossavano e che avevo comprato tempo fa in un negozio di Boston.

Ho scritto un racconto per capire tante cose. Ho capito di essere giunta a conclusioni che si sono poi rivelate impraticabili.

Sono tornata dal parrucchiere dopo due anni e mezzo.

Ho festeggiato il mio diciottesimo compleanno e non ho preso la patente. 

Sono andata in America, ho fatto paracadutismo ascensionale sull’oceano, sono tornata in Italia.

Ho scattato foto istantanee che potrebbero essere interpretate solo dalla mente di Tim Burton per riuscire ad esprimere qualcosa od imprimere un’immagine.

Ho preso un altro cane che ho chiamato Arizona, come il chirurgo pediatrico e fetale di Grey’s Anatomy, ed ora è il mio nuovo amore.

Ho fatto la foto di Hazel e Gus con la mia migliore amica nel giardino di casa.

Ho scritto il Dialogo della Guerra e della Religione tra le note del telefono e non l’ho più letto. 

Ho cantato tra il pubblico al concerto di Mika in un settembre caldissimo e pieno di sole.

Ho conosciuto Virginia Woolf, sono entrata nella sua stanza tutta per sé senza mai uscirne davvero, e me ne sono perdutamente innamorata.

Ho cucinato ricette vegetariane e pancake vegani.

Ho vinto i biglietti per vedere XFactor live e ho scoperto che la mia altezza mi ha precluso il selfie con Skin da sotto il palco, mentre scomparivo tra la folla più alta di me.

Ho mangiato biscotti alla cannabis in cui l’erba era solo nel nome e nell’odore nell’aria di Amsterdam.

Sono andata al museo di Van Gogh – e non impazzisco per i suoi quadri quanto per la sua follia ed il suo genio – e ho trovato i dipinti di Munch, che adoro.

Ho fatto da elfo di Babbo Natale ed impacchettato ogni regalo, anche il mio, arrivando alla vigilia senza sorprese.

Ho pianto per la gioia scartando una busta di intimissimi e trovando un libro di Orazio risalente al 1736, con le pagine che implorano di non essere toccate perché sono più importanti di me e di tutti noi messi insieme.

Ho letto il mio regalo firmato Pennac / Miró, regalo da parte di mia zia del Natale del 1997, il mio primo Natale. 

Tirando le somme, oggi, ho capito che posso stilare una lista di canzoni che ascolto piangendo, che posso dire che neanche quest’anno sono riuscita a toccare una bottiglia di vino o di birra alimentando la mia metifobia ormai quasi dichiarata e che io, la sera di capodanno, amo passarla in famiglia, come se fosse un giorno qualsiasi, perché realmente è un giorno qualsiasi, solo che si mangia di più, mamma fa un dolce che fa una volta l’anno e che io puntualmente non mangio, si conta al contrario per salutare un numero e accendere le stelline scintillanti di cui io ho paura. 

Ah, dimenticavo… 

Ho scritto sei lettere sul foglietto bianco a penna e qualcun altro le ha scritte sul mio polso. E ho creato un blog. 

Con i pezzi a terra

26 Ottobre 2015, note

«Conoscere davvero qualcuno è qualcosa di talmente fatale che…che quando succede è per sempre. No? Insomma, si può anche evolvere, cambiare. Ma l’anima rimane quella.»

Mentre leggevo Per dieci minuti di Chiara Gamberale, seduta davanti al fuoco del camino, queste parole hanno risvegliato qualcosa dentro di me. Forse solo un qualcosa che sempre penso: forse niente di nuovo. 

Guardavo il fuoco, guardavo queste parole, pensavo che è davvero fatale conoscere una persona. Fatale. Fatale perché raramente due persone si conoscono davvero, e perché quando questo accade è come se le due persone fossero nude l’una davanti all’altra, come se, pezzo dopo pezzo, indumento dopo indumento, ci liberassimo del tutto di ciò che abbiamo intorno, di ciò che apparentemente ci protegge. Per questo è fatale: perché non c’è protezione. O meglio, la protezione rimane, ma non la troviamo più nei nostri indumenti e nei nostri pezzi incollati alla nostra pelle, ma nella persona – o nelle persone – che li hanno soffiati via, quei pezzi. 

Le persone dicono di conoscersi. È la prima cosa a cui si fa riferimento quando si parla con altri, sottovalutandone banalmente il vero significato. Io e tante persone ci conosciamo da anni, ma non sappiamo nulla di noi, ci accontentiamo dei nomi, dei lineamenti di un volto, di un’età. 

Automaticamente ho pensato alle persone che ho nella mia vita e ho pensato a te. Noi ci conosciamo da un anno o poco più, ma ci stiamo conoscendo da poco. E perché due persone si conoscano devono volerlo entrambe, se no fatale non è. Forse è per questo che tutte le persone che conosco – quasi tutte – di me sanno ben poco, come io di loro d’altronde. Forse perché, egoisticamente, non voglio che siano loro a togliermi via dei pezzi che sento miei e che mi fanno da scudo e da filtro. E ho pensato di essere felice di avere te nella mia vita, perché i pezzi che stanno cadendo ai tuoi piedi, ai miei piedi, non fanno fatica a cadere: succede naturalmente, cadono con leggerezza e poi si confondono con i tuoi. E la protezione rimane. Voglio imparare a conoscere i tuoi sguardi, i toni della tua voce, il tuo camminare a volte prepotente a volte fragile ed impacciato. Voglio imparare a conoscere – e a riconoscere – di cosa hai bisogno, perché il bisogno evolve e cambia ogni giorno, ma la tua anima no. Con i pezzi a terra. 

Dedicato ad Harry, 

con affetto,

da Ron 

⚯͛